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IL PESO DEL CORPO: l’obesità per la psicoanalisi

Qualche tempo fa una paziente mi ha posto la seguente domanda: cosa ci fa lo psicologo nella cura dell’obesità?

Effettivamente credo sia una bella domanda, legittima soprattutto laddove l’obesità è sempre stata trattata da un punto di vista medico e non solo per le complicanze ad essa legate.

In effetti, se consideriamo l’obesità come disturbo, un disturbo del corpo, è il medico o il dietologo o il chirurgo, la figura preminente per il trattamento, per la cura che secondo questo orientamento cercherà di riequilibrare un rapporto alterato con il cibo, cercherà di educare o rieducare un comportamento.

Se consideriamo l’obesità, così come gli altri disturbi alimentari, come disturbi appunto, cioè come disfunzioni, come cattivo funzionamento o malfunzionamento di una attività del corpo non possiamo che orientarci verso la medicina, la chirurgia, la prescrizione di diete, di farmaci: tutti interventi diretti a ridurre qualcosa di “troppo” presente nel corpo.
La domanda della paziente è quindi legittima e chiedersi cosa ci faccia lo psicologo nella cura o lo psicoterapeuta o peggio ancora lo psicoanalista, è una domanda che ha il suo senso.

La risposta possiamo trovarla però se partiamo da un’altra posizione.
Quella che ci permette di considerare, grazie alla psicoanalisi, l’obesità non come disturbo, disfunzione, ma come espressione di un disagio che ha origini altrove, come un sintomo.
Cos’è il sintomo? Cos’è per la psicoanalisi?

Con Freud abbiamo imparato che il sintomo è una formazione derivante da un conflitto, una costruzione che il soggetto fa, in modo inconscio, per far fronte a un conflitto interno tra istanze diverse. Il sintomo è qualcosa che rappresenta il soggetto, di cui in qualche modo è responsabile, ma di cui il soggetto stesso che ne soffre, che si lamenta, non sa. Il senso del suo stesso sintomo gli sfugge, è un enigma.
Sempre con Freud sappiamo che nel sintomo è racchiusa una verità, la verità del soggetto sottoforma di metafora, di immagine che lo rappresenta ma il cui significato, il cui valore non è chiaro, è opaco.

Quindi l’obesità non è un disturbo.
Ma l’obesità non è neanche una questione legata alla volontà o meglio alla mancanza di volontà.
Quanti tentativi la persona obesa mette in atto: quante volte sentiamo dire “da domani… da lunedì… inizio la dieta, faccio ginnastica, vado a correre, mi iscrivo in palestra…” e così via. E magari questo succede, per qualche tempo funziona ma poi qualcosa ritorna, ritorna quella spinta di nuovo, irrefrenabile all’oggetto cibo, al divoramento, al mangiare senza limiti e, apparentemente, senza perché.

Ed è sempre Freud che ci insegna che c’è un agire dell’uomo che va oltre la volontà, che va oltre il principio di piacere, come lui lo definisce, che spinge l’uomo, paradossalmente, a ripetere, a mantenere, a rivivere situazioni di dispiacere, di malessere, di disagio. Si tratta di una spinta alla ripetizione di qualcosa di spiacevole, una pulsione di morte, come Freud la chiama, una spinta cioè antibiologica che ci dà la misura di come l’uomo non sia solo e tutto all’interno di un ordine biologico.

Questa visione sovverte l’idea classica dell’uomo alla ricerca del benessere, della volontà come dominatrice incontrastata dell’agire umano, desiderio di armonia come unica molla presente nell’uomo.
L’uomo quindi si trova a lottare non solo contro le proprie esigenze e quelle esterne, appartenenti alla realtà, alla famiglia, alla società, ma anche interne all’essere umano stesso; una lotta tra istanze diverse che, se da un lato gli fanno affermare di voler star bene, dall’altro lo spingono esattamente in altra direzione.

Cerco di isolare alcuni punti che solo per ragioni di chiarezza espositiva elenco come distinti poiché di fatto sono intimamente intrecciati e che caratterizzano la clinica dell’obesità.

Patologia della sfera orale
Nelle società industrializzate, in cui la presenza, l’offerta di cibo è abbondante e sempre disponibile, il cibo stesso rappresenta ciò che può tappare, saziare, ridurre la fame ma anche mettere a tacere qualcosa che non è propriamente fame, o meglio che è fame d’altro.
Con fame “d’altro” introduciamo un elemento enigmatico. Cos’è questo altro di cui si parla? E’ altro dalla fame “biologica”, diciamo così, ma è anche fame che riguarda l’altro, che si lega all’altro della relazione, del rapporto.
Freud nei  “Tre saggi sulla teoria sessuale” faceva notare come il bambino che succhia il seno materno realizza non solo l’appagamento di un bisogno. L’attività stessa di suzione costituisce un appagamento libidico, un piacere. E attraverso il latte il bambino riceve non solo nutrimento, ma anche una cura particolarizzata, riceve attenzione riceve, come dice Lacan, un segno d’amore da parte dell’Altro materno.

Questo segno dà una valenza simbolica all’oggetto cibo che diventa pertanto rappresentante del dono d’amore e come tale non è più solo oggetto che appaga il bisogno: il latte non è più solo latte, il cibo non è più solo cibo, ma è anche altro, è anche segno dell’amore, è anche il segno del desiderio dell’altro verso il bambino.
L’altro, attraverso la sua presenza e assenza, permette al soggetto di sperimentare la mancanza e conseguentemente il desiderio.

Laddove però l’altro è pronto a raccogliere la domanda del bambino solo come domanda di soddisfacimento di bisogno e non riconosce dietro essa la richiesta d’amore e non dà il segno del proprio amore, del proprio desiderio, l’oggetto cibo può assumere il valore immaginario di compensazione, diventa l’oggetto compensatorio che colma il vuoto di desiderio lasciato dall’altro. La passione orale che fissa il soggetto obeso all’oggetto cibo e che porta ad una trasformazione, alla deformazione del corpo, è segno di qualcosa di alterato nel rapporto che il soggetto intrattiene con l’altro e nel rapporto che ha sperimentato tra bisogno domanda desiderio.

La persona obesa vive una pulsione orale sregolata, compulsiva verso l’oggetto cibo; un eccesso che rimane fissato sulla sfera orale e che spesso viene sollecitato da situazioni di frustrazione, di disagio; questa fissazione instaura e mantiene una dipendenza dall’oggetto, molto simile a quello che troviamo nelle tossicodipendenze, dell’alcolismo.
Il divoramento e il soddisfacimento attraverso il cibo permettono di non passare attraverso il rapporto con l’altro, attraverso il legame con l’altro, l’altro del desiderio.

Mediante il divoramento dell’oggetto, la sua incorporazione il soggetto nega la mancanza dell’altro, nega la sua perdita; nega quella separazione che gli permetterebbe di inventare, di saldare invece con l’altro un legame nuovo. L’esperienza di soddisfacimento diventa così un’esperienza solitaria, individuale, in cui il soggetto è tutto preso da un godimento solitario.
Chi è l’altro della persona obesa? Com’è l’altro con cui ha a che fare?

Ogni soggetto, come Freud e Lacan ci insegnano, per sua stessa struttura, è mancante. Ogni essere umano cioè perde con la separazione dall’altro, l’altro materno, l’oggetto mitico di soddisfacimento; da qui la sua incompletezza, il suo essere mancante appunto e perciò desiderante. Affinché ci sia un desiderio occorre ci sia un posto vuoto, un buco, una mancanza.
L’obeso nega tale mancanza, la ottunde attraverso l’incorporazione, il divoramento dell’oggetto da cui dipende, come abbiamo detto. La dipendenza patologica dall’oggetto sottolinea la difficoltà della separazione e l’impossibilità di accostarsi alla dimensione del desiderio.

Il suo altro è un altro non mancante, onnipotente, che può, che sa, che spesso ha un sapere particolare proprio sul cibo. Di fronte a questo altro pieno, senza buchi, che chiede, che ha aspettative, ma che non mostra una mancanza, un desiderio, il soggetto obeso soggiace. Si appiattisce sulla domanda del suo altro, risponde alle aspettative, diventa come l’altro lo vuole.
In questo modo l’obeso accondiscende all’altro, l’altro materno, a cui non sa dire di no, che non sa contrastare. E al di là dell’apparente socievolezza, dell’apertura, della disponibilità c’è una difficoltà di rapportarsi con il desiderio dell’altro, perché ciò che manca è proprio il rapporto con la propria mancanza.

Il rapporto con l’altro quindi, con l’altro materno in primo luogo, è compensato dall’oggetto cibo e l’appiattimento, la sottomissione alla domanda dell’altro testimonia una separazione simbolica non avvenuta, una perdita non sperimentata.
In questo modo non vi è spazio per un desiderio, perché il desiderio prevede una mancanza; non c’è spazio per un rapporto che passi attraverso la mancanza, un rapporto sostenuto dal desiderio. Tutto è pertanto riversato sull’oggetto cibo come modalità compensatoria di godimento che consente di eludere l’angoscia legata al desiderio dell’altro e al desiderio proprio.

Mantenere l’altro, la sua onnipotenza permette di non prendere una posizione autonoma; negare che l’altro possa essere mancante e quindi desiderante, considerarlo pieno, con un sapere, senza buchi, senza mancanze, senza desideri mette al riparo anche dal proprio desiderio. Fino a che il soggetto infatti si pone al servizio dell’altro, si mantiene in una posizione di sottomissione, di sudditanza, può evitare, può rinviare l’incontro con il proprio desiderio e con la responsabilità di esso.
La persona obesa teme infatti proprio questo, il rapporto cioè con il desiderio dell’altro e con il proprio e per questo predilige momenti di godimento propri, scollegati dal legame interpersonale, legati solo al cibo.

Il desiderio è quindi negato, rifiutato.
Il corpo è il luogo del desiderio e del rapporto con l’altro. Nell’obesità il corpo perde le forme che lo rendono desiderabile, che lo rendono attraente. E’ un corpo privato degli attributi sessuali, da cui lo sguardo viene distolto, che permette l’allontanamento della pulsione sessuale, l’incontro con l’altro e mette al riparo anche dal proprio desiderio, spesso inconfessabile, inaccettabile per il soggetto stesso.
“Una molle corazza” come è stata chiamata da una giovane donna, protettiva anche verso il proprio desiderio inaccettabile perché fuori dai canoni educativi ricevuti…

La cura
Se affrontiamo l’obesità solo dal lato del ripristino di un peso ideale, lo trattiamo alla stregua di una qualsiasi malattia fisica, potremmo sì alleggerire il paziente dai kg di troppo e dall’angoscia, almeno temporaneamente, con buoni risultati, ma senza aver dato la possibilità al soggetto di trovare un sapere, il suo sapere sul sintomo, sulla sua natura, su cosa cela, su quale verità nasconda.
L’oggetto cibo che la persona obesa usa per placarsi, colma un vuoto insostenibile.

L’ascolto della parola del soggetto permette invece di introdurre uno spazio, una scansione nella catena senza fine del divoramento, permette di lasciare un posto, svuotato dall’oggetto cibo, di sperimentare la possibilità di un buco attorno al quale costruire qualcosa di nuovo.
L’ascolto della parola del soggetto, un ascolto che non vuole rimpinzare ancora una volta ma che è capace di creare uno spazio, permette di non continuare a colmare con oggetti cibo-parola, ma consente di far posto alla parola del soggetto, le permette di uscire fuori, di non essere ricacciata all’interno come spesso sottolineano espressioni come “mi tappo la bocca”, “sto zitta e ingoio”.

La parola detta si deposita fuori e nell’atto stesso della sua emissione rivela qualcosa del soggetto al soggetto stesso.
Il cibo che copre l’angoscia, che la ottunde, costituisce l’operazione inversa a quella che la terapia permette e cioè l’attraversamento dell’angoscia, l’incontro con la propria mancanza, con la propria fragilità, verità e risorsa del soggetto. Nella cura dell’obesità, come del resto di tutti i sintomi, occorre cautela, occorre misurare l’intervento in considerazione della struttura del soggetto.

Il sintomo, non va dimenticato, è un tentativo di autocura e come tale non è sempre possibile, soprattutto nelle strutture più fragili, pensare una sua eliminazione completa proprio in virtù della valenza che possiede di appoggio, di stampella. Quello che però è possibile fare è rendere il sintomo meno dannoso, meno doloroso e accompagnare il soggetto nella ricerca di altre forme, meno pericolose, di autocura. Il lavoro analitico consente proprio questo: consente di inventare un modo singolare, unico per il soggetto di incontrare se stesso e l’altro.

Come esistono le anoressie, le bulimie, così esistono le obesità. Esiste cioè la peculiarità, la singolarità del soggetto con cui è possibile lavorare per dare un luogo al sintomo, collocarlo nella storia particolare, trovarne la logica e renderlo più sopportabile.
Questo è il percorso possibile che, per rispondere alla domanda iniziale con cui abbiamo aperto, dà un posto non solo al soggetto ma anche al terapeuta.